Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca

Il n. 41 di «Oblio» si apre con un Omaggio collettivo a Mario Lavagetto, impreziosito dalla pubblicazione di un suo saggio sulla poesia del conterraneo Attilio Bertolucci mai raccolto in volume. All’Omaggio contribuiscono sette interventi, di allievi diretti di Lavagetto alla sua scuola bolognese, di amici di lui poco più giovani e di studiosi delle generazioni successive, accomunati dall’ammirazione per il suo lavoro e dalla gratitudine nei suoi confronti. Dal canto nostro, ringraziamo di cuore la famiglia del critico scomparso, nella persona della signora Maria, e gli autori dei saggi che lo ricordano.

Come le precedenti su Timpanaro, Ceserani, Mazzacurati, Orlando, Brioschi, l’iniziativa persegue uno degli obiettivi che stavano al centro del nostro progetto originario, quello di raccogliere la sfida del destino di obsolescenza e rimozione patito dagli studi letterari e denunciato sin dal nostro titolo, promovendo la lettura distesa della critica e rivisitando la lezione dei maestri di quella novecentesca, per scoprire se e che cosa continuino a insegnarci. L’imbarazzo della lontananza, quando sia veramente tale (né Lavagetto, né quelli che lo hanno preceduto nella nostra rivisitazione sono peraltro divenuti più lontani di quanto lo sia nella dispersione attuale uno qualunque degli studiosi ancora attivi), sarà superato davanti alla tensione che accomuna tutti i critici, ieri e oggi ugualmente impegnati, ciascuno a modo suo, a risolvere, con la guida e per l’impulso di chi li ha preceduti, lo stesso problema, elementare e insolubile, quello di dire con parole proprie e appropriate all’oggetto e alla loro lettura ciò che già hanno detto le opere letterarie. Quando essi pensano di fare qualcosa di diverso, non possono evitare di ricordarsi che hanno sempre davanti una classe e che il loro compito rimane quello di interrogare un testo.

La natura del problema mette alla prova fino allo stremo conoscenze e attitudini altrettanto elementari e di solito comunemente acquisite e finisce per mobilitare competenze, spesso da reclutare per l’occasione e fatalmente restituite alla loro autonomia, prima come discipline sussidiarie e dopo come aggiramenti, fughe per la tangente, egemonie alternative. Ha resistito però a tutto quella tensione originaria, con il minimo complemento delle condizioni che impone una situazione idealmente sempre didattica, non regole ma al contrario la disponibilità a ricominciare da capo, per tener conto sia della rete dei riferimenti che rendono sensato un testo, sia dei limiti dell’attenzione e della memoria, e l’impegno a commisurare il risultato sul verosimile e sul conveniente richiesti da un genere letterario che ha provato invano a entrare nei panni stretti della scienza e non ha tuttavia mai rinunciato al più serio investimento conoscitivo. Così si sono regolati i maestri e da loro non si smette di impararlo, con l’illusione di rinnovare il miracolo della comprensione condivisa, in classe e sui libri, quando la loro lettura non aveva ancora subito tante interferenze, e la speranza di poter da loro raccogliere il testimone della ricerca. 

Ora che tutti, per far professione di modestia, si definiscono ricercatori, sembra uno scandalo ammettere che non siano nient’altro i maestri, non solo quelli proverbiali di cui abbiamo appena parlato e ai quali si conferisce spesso la maiuscola iniziale, ma gli insegnanti di qualsiasi disciplina a qualsiasi livello, tutti alle prese con l’impresa difficile e pure necessaria (una ricerca senza alternative e con poche speranze) di trasmettere il sapere, tecniche nozioni esperienze, così come le hanno intese, a chi le intenderà secondo le sue possibilità e ne ricaverà comunque un’occasione di crescita, per continuare a studiare, per orientarsi nel mondo o solo per contrarre come una malattia norme di comportamento sociale e un vissuto intellettuale e emotivo. In cambio i maestri vivranno e faranno vivere i momenti indimenticabili delle scoperte comuni e, con le alterne fortune dei loro sforzi, daranno un esempio di applicazione disinteressata ma tutt’altro che sterile. Di questa pattuita aleatorietà dell’insegnamento, soggetto a molte variabili ma ugualmente produttivo, una riprova si rinviene proprio alla fine dell’ultimo libro di Lavagetto, dove, benché parzialmente attendibili e in ciò non troppo diversi da una censura, gli appunti presi dagli allievi di De Sanctis consentono di ricostruire le trasformazioni dell’interpretazione boccacciana del maestro, dopo aver registrato le distorsioni alle quali la sua lezione è sopravvissuta. 

Della nuova veste e delle più accessibili funzionalità di «Oblio», che a un altro genere di distorsioni intendono opporsi, abbiamo già fatto cenno nel precedente Editoriale. Altre novità intendiamo introdurre, sempre per migliorare il servizio. Con le recensioni di questo numero, dovremmo aver superato le 1950 (una media di quasi 200 all’anno) e vorremmo incrementarle, sempre in linea con la nostra scelta identitaria iniziale e nella convinzione che in questo momento, per la loro sciagurata esclusione dal novero delle pubblicazioni scientifiche, se ne senta particolarmente la necessità. Se abbiamo pubblicato frequentemente articoli sia brevi che lunghi di giovani alle prime armi, è stato perché ai giovani ci eravamo rivolti come ai più naturalmente interessati alle recensioni, non tanto basandoci sul fatto che anche noi avevamo cominciato così, quanto sulla disaffezione degli studiosi maturi rispetto al genere, già innegabile quando il pregiudizio non era istituzionale e diventata addirittura ideologica con il rompete le righe successivo alla proclamazione della crisi della critica. In un quadro diverso, non si comprenderebbe la scomunica delle recensioni da parte degli stessi che, in nome della meritocrazia, all’accertamento della qualità (niente di trascendentale, ma perizia artigiana, informazione, serietà, pertinenza, autonomia di giudizio) preferiscono indicatori estrinseci, in ultima istanza quantitativi, come sedi editoriali, mobilità convegnistica e altri pennacchi. 

Alla recensione ha dedicato il proprio esordio la nostra rubrica «Voci», con contributi che attendono una ripresa e sui quali contiamo di tornare. Soprattutto però alle recensioni vorremmo ancora esortare i nostri collaboratori, a qualsiasi generazione appartengano. Sanno già che la recensione, per quanto affrontata con il massimo impegno, è un lavoro che si può svolgere in poco tempo e viene pubblicato prima di un articolo anche breve. «Oblio» per giunta esce puntualmente e non lascia mai indietro le recensioni che da quel poco tempo abbiano saputo trarre profitto.

Poiché il ruolo dei recensori può essere svalutato dai diretti interessati, li vorremmo mettere in guardia da un rischio: non si considerino soldati da reclutare per sostituire chi li ha preceduti e adesso ha un ruolo diverso. Non è questo uno dei tanti casi in cui ci sono più ufficiali che soldati. 

È vero che noi di guardia, o con il nome in ditta, siamo aumentati. Non per questo però abbiamo smesso di recensire saggi in volume e in rivista, né di dare responsabilità redazionali ai più giovani. L’unico grado che la squadra addetta al funzionamento di «Oblio» riconosce e anzi pretende senza distinzione è quello appena esibito: i caporali, come si chiamano le virgolette basse sin dall’inizio del nostro lavoro comune preferite a quelle alte, che quindi non vanno adoperate a sproposito, cioè non vanno adoperate mai, perché, persino quando se ne sente il bisogno, proprio allora bisogna sospettare che si tratta di segnali di resa, mani in alto, senza che nessuno le abbia intimate, foglie di fico di incertezze, approssimazioni grossolane, esagerazioni. Di enfasi in giro ce n’è pure troppa.

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