Oblio, XIV, 50 editoriale Editoriale Scarica in pdf Il numero 50, con cui concludiamo la nostra quattordicesima annata, esce a ridosso dei festeggiamenti per il venticinquesimo compleanno della Mod – Società italiana per lo studio della modernità letteraria. È una felice coincidenza. Fuori della sua cornice, non sarebbe nemmeno nata l’idea di una pubblicazione come questa, non l’ennesima rivista letteraria, ma un progetto e l’esperimento con cui stiamo provando a realizzarlo. Festeggio anch’io. Eppure, credetemi, a parte la coincidenza, sarei piuttosto propenso a ricordarmi che sono poco portato per i festeggiamenti. Cinquanta numeri nei suoi quattordici anni di vita sono sicuramente un traguardo degno di nota, tanto più che «Oblio» è stata finalmente classificata nella fascia A dei periodici di competenza. Può dispiacere tuttavia che al nostro impegno non siano corrisposti né una diffusione della rivista pari alle aspettative, né una presa d’atto, meno stentata e fine a se stessa, della convenienza non solo economica del formato elettronico adottato. Se mi limito a manifestare di passaggio il mio rammarico, è perché, nello strano mondo con il quale abbiamo deciso di misurarci e la critica stessa ha fin troppo in comune, sulla reale efficacia di una innovazione fa aggio la sua notifica (equiparabile a una percezione ufficiale), come la macchia nera nell’Isola del tesoro di Stevenson, le proposte che non si possono rifiutare del Padrino o il proverbiale sasso in uno stagno. Anche solo con la propria esistenza, «Oblio» ha notificato che una rivista, accademica come le molte di cui da ogni parte si stava da anni deprecando il disordinato affollamento, la reciproca estraneità e l’esistenza quasi solo virtuale, era in grado di abbattere tempi e costi di produzione e di raggiungere capillarmente, in Italia e all’estero, un pubblico potenziale molto più consistente e meno scontato del solito, grazie a una più comoda e capillare fruizione. Con una non più circoscritta pubblicazione open access, come la nostra, si sarebbe potuta favorire, nella migliore delle ipotesi, una diversa gestione della stessa emergenza valutativa. Resta da vedere se e come la nostra proposta sia tuttora concorrenziale, anche sotto il profilo qualitativo, da che di pubblicazioni online dedicate alla letteratura non c’è più penuria. «Oblio» si chiama così non tanto per richiamare antifrasticamente l’attenzione sul destino ancillare della critica, che, tranne rare eccezioni (sancite di solito dalla promozione dei critici a scrittori o a personaggi), vive brevemente a ridosso e nell’ombra delle opere di cui si occupa, quanto per sottolineare appunto la precarietà della sua esistenza e i paradossi che la caratterizzano. Essa non solo sopravvive dimenticando più di quanto non ricordi della sua stessa storia, ma è soprattutto soggetto e oggetto di una metodica dimenticanza, come quando non può che fingere il totale controllo dei temi che tratta, a cominciare dalla critica concorrente, o viene rimossa non appena esce, sempre salvo isolate eccezioni, dal cono luminoso dell’attualità. È infatti capitato che l’impropria finzione in cui essa consiste, quando accennava a costituirsi in progresso, sia collassata, come è avvenuto platealmente con la teoria della letteratura, concepita con soverchio ottimismo come una scienza e poi crollata sotto il suo stesso peso, per essere raggiunta appunto dall’oblio, un destino comunque più verosimile del suo contrario, proprio perché la critica e la teoria sono a loro volta pienamente letterarie e soggette alla volatilità di gran parte della letteratura, quella non ratificata da una solida assunzione tra i classici. Ciò non toglie che non ci sia motivo, voglio dire l’autorità, per proibire che le altre opere, quali che siano i loro intenti, siano ascritte alla tradizione, senza la necessità di una notifica ulteriore rispetto a quella già garantita dalla pubblicazione. Come nessun documento può essere considerato definitivamente trascurabile, nemmeno un’opera a stampa alla tradizione può rimanere estranea. Più che di un premio di consolazione per i «sommersi», si tratta di una regola d’ingaggio e di una lezione di modestia per i «salvati». Non suscita sorpresa e men che meno scandalo che di fronte a un romanzo siamo pronti a mettere tatticamente da parte la sua istituzionale inattendibilità per immergerci in essa, dimenticando tutto il resto finché anche la realtà si imponga al seguito della stessa messa a fuoco mobile. Ciò vale per qualsiasi lettore e più ancora per il critico, che più di ogni altro sospende, esita e oscilla senza impazzire tra mondo fittizio e mondo reale, dal canto suo appellandosi, quando poi motiva i suoi pronunciamenti, a una variabilità della messa a fuoco che non risparmia neppure i testi non letterari. D’altronde sull’oblio, oltre alla letteratura, è fondata la stessa lettura, che trova segni e li traduce in significati, ma non rimane indifferente al di più di senso che trascura e di cui subisce ugualmente gli effetti. Il critico non dovrebbe limitarsi a subirli, non foss’altro perché deve risponderne. In quanto poi acronimo di «Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca», il titolo non creava soltanto una tensione tra l’ammissione ironica di un destino invano negato e la proba serietà di un orizzonte studioso estraneo a queste oscillazioni, ma proponeva una inedita continuità tra l’audacia teorica del titolo e la compostezza istituzionale, cioè accademica, del sottotitolo. Ciò non ha mai voluto stabilire un contrasto tra l’attività dei critici e quella degli studiosi, che possono e debbono perseguire obiettivi specifici, ma in ogni caso propongono aggiunte tendenzialmente più solide, affidandole e offrendole comunque alla lettura ulteriore che loro stessi sono abilitati a assicurare. Se fossero sensate e se abbiano avuto uno sviluppo concreto le prospettive indicate sin dai più remoti editoriali di «Oblio», avranno avuto tutto l’agio di constatarlo i pazienti lettori della rivista nel corso degli anni. A una in particolare, la effettiva lettura della critica invece delle consultazioni rapsodiche, ossequiose o sprezzanti che fossero, la rivista ha sempre tenuto, anche se era quella apparentemente meno approfondita o addirittura platealmente contraddetta dalla principale peculiarità del servizio che cercavamo di rendere alla nostra comunità e sembrava limitato, a detta dei più, da un investimento senza precedenti sulla videolettura. Convengo che la scommessa è stata vinta molto parzialmente, ma l’ormai collaudata acquisizione del mezzo e un primo conseguente cambiamento delle abitudini sono un dato di fatto. Orrore: come si poteva consigliare la lettura più attenta e diffusa della critica (e considerarla una prospettiva essenziale e un obiettivo realistico dopo che la sua crisi era stata liberatoriamente ammessa) proprio mentre, quasi con l’altra mano, si imponeva la rinuncia faticosa e innaturale alla pratica familiarità della carta stampata e al comodo supporto che essa aveva sempre fornito alle sottolineature, ai commenti e agli andirivieni favoriti, se non guidati, dalla memoria visiva e dalle sue associazioni imprevedibili? La videolettura e il suo corredo di ricerche automatiche sembravano semmai idonei e propedeutici alla via brevis della lettura trasversale, desultoria e persino virtuale, proprio quella che, per puntare alla sostanza, come continuava a privilegiare lo stesso materiale probatorio, così sottoponeva la critica a una specie di formalizzazione, rispondendo idealmente a un questionario preesistente, collocandosi rispetto a problemi dati e registrando l’eventuale interesse delle nuove proposte, per lo più purché si inquadrassero in uno schema noto. Posto però che, alla familiarità e al supporto materiale della bella pagina stampata su carta, accanto o prima di una ulteriore ricognizione, si sarebbero potuti alternare vantaggiosamente una ben più larga disponibilità dei testi e la nuova suscettibilità di interrogazione a essi garantita dalla tecnologia (e convenientemente sostitutiva di valutazioni ufficiali quantomeno macchinose), non la videolettura in quanto tale, ma la sua tendenziale indipendenza dalle restrizioni spazio-temporali delle consultazioni bibliotecarie, o dai costi delle acquisizioni personali, avrebbe potuto già realizzare diffusamente le condizioni di una comprensione meditata, più analitica e rispettosa degli sforzi di farsi intendere dentro una comunicazione problematica, non troppo diversa dalla letteratura e afflitta dalla stessa limitazione, paradossale e realistica. Per quanto ridotte, le restrizioni permarrebbero comunque e renderebbero impossibile la conoscenza totale e analitica di un repertorio in continua espansione (e non più formalizzabile di una volta), lo stesso che spiega il carattere velleitario di ogni pretesa totalitaria, ma non giustifica le ipocrisie, tanto correnti da sembrare convenzioni pacificamente accolte e da poter essere attribuite alla consustanzialità della letteratura con la finzione. L’omaggio reso da «Oblio» alla critica prendeva atto della sua mobilitazione di strategie conoscitive raccomandate dalla loro coincidenza con la lettura e finalizzate alla sua resa discorsiva, letteraria già con la somiglianza, esibita en faute de mieux come annuncio e pegno della propria veridicità. Senza perciò nulla togliere all’efficacia dei singoli passaggi e all’originalità delle soluzioni anche localmente proposte, si promoveva la restituzione degli uni e delle altre alle costruzioni complessive fornite dai critici e dai loro saggi. Ai numerosi collaboratori che si sono più succeduti che alternati in «Oblio», e ci hanno reso detentori del più cospicuo repertorio della critica letteraria italiana degli ultimi anni, tuttavia sempre molto lontano dalla completezza, non si chiedeva un investimento meno impegnativo che se si fossero dovuti esprimere su una novità narrativa o poetica, anzi per certi aspetti i risultati cui pervenivano con le loro disamine lo erano anche di più, dato li esponevano nella maniera direttamente professionale che romanzi e poesie non avrebbero chiesto. Benché sempre sottoposta alla concessione di una maggiore o minore indulgenza, la lettura di una lettura in cui consiste la recensione di un saggio critico, pur essendo altrettanto parziale, non può invece rimanere sul vago e ha l’obbligo più stringente di esprimersi, mentre li riferisce, sulla sostenibilità e sulla pertinenza degli argomenti prodotti dall’autore recensito. Mentre così le opere di finzione consentono il frequente ricorso a un’esemplificazione parlante più da parte del recensore che in nome dell’autore, i saggi critici, proprio perché sono allo stesso modo letterari, non si prestano a una campionatura illustrativa tanto dell’oggetto quanto della lettura e esigono da chi ne parla il rispetto della loro lettera e una motivata utilizzazione del materiale probatorio. Visto che, dopo molto tempo, torno a prendermi la responsabilità diretta dell’Editoriale, colgo l’occasione per tormentare di nuovo i collaboratori presenti e futuri con l’accanimento senile e l’ostracismo ancora più mio nei confronti delle virgolette alte, invano allusive e solitamente dimissionarie. Comunque la si pensi, il primo compito della critica è la verbalizzazione della propria lettura. Che sia anche un limite, qualcun altro lo aveva metabolizzato definitivamente con l’esempio della colomba, il volo della quale non si sosterrebbe, se non incontrasse la resistenza dell’aria. Se a ricordarlo è poi uno che l’aria la fa mancare ai suoi malcapitati lettori, bisogna crederci. Mi sono dilungato e perciò assecondo l’universale insofferenza all’imbonimento, ricordando velocemente la ricchezza di questo numero di Oblio, che si conclude come al solito con un buon numero di recensioni (resto convinto che la loro ricchezza sia ancora il nostro fiore all’occhiello) e propone due nutrite rubriche, su Saba e sui rapporti tra critica e oblio, nonché un folto manipolo di articoli. Tra questi ultimi, condizionato dai lavori che sto preparando o ho da poco concluso, ho letto con particolare interesse il saggio di Lucia Battistel sul Latino dell’ultimo Luzi e quello di Rosy Cupo sul pirandelliano Così è (se vi pare). Nell’«A fuoco su Saba», non me ne vorranno gli altri, se segnalo con particolare enfasi l’intervento magistrale di Antonio Saccone, «Classicismo sui generis e quasi paradossale». Saba secondo Montale, in cui acutamente si coglie la pertinenza della diagnosi del poeta ligure a proposito dell’opera di entrambi, richiamando l’attenzione sul presupposto comune dal quale, in modo quasi complementare, essi hanno preso le mosse. Sulla rubrica omonima della rivista, com’è ovvio, essendo per giunta compreso tra gli intervenuti, preferisco sorvolare. Mi riservo solo il piacere di ringraziare gli autori con particolare enfasi.